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La BBC in una sua inchiesta sottolinea come Pechino costringa centinaia di migliaia di Uiguri, minoranza musulmana turcofona che vive nella Cina occidentale, a lavorare in totale sfruttamento e schiavitù per il raccolto del cotone nelle campagne dello Xinjiang. Essi raccolgono decine di chili di fiori al giorno, lontani da casa, a volte costretti a dormire per terra o all’aria aperta. Tutto questo per un salario spesso inferiore al minimo locale. Secondo un'indagine condotta dall’antropologo tedesco Adrian Zenz, almeno mezzo milione di persone appartenenti a minoranze etniche nello Xinjiang vengono ora mandate a lavorare a forza nei campi di cotone. Sulla base di documenti ufficiali cinesi, Zenz fornisce la prova della fornitura ai proprietari delle piantagioni da parte delle autorità cinesi, di una manodopera docile a cui bisogna inculcare, attraverso un inquadramento di tipo militare, un’educazione del pensiero. Gli Uiguri secondo le autorità politiche devono essere rieducati  e “liberati” dal loro modo di pensare tradizionale. Con il pretesto della riduzione della povertà e della rieducazione politica attraverso il lavoro, nello Xinjiang si produce l’85% del cotone cinese, che rappresenta il 20% di quello mondiale. 
La rivista statunitense Wired ricorda che varie inchieste internazionali, basate sulle testimonianze di alcuni sopravvissuti, parlano di torture, violenze fisiche e psicologiche, e persino di sterilizzazione forzata imposta alle donne a cui gli Uiguri sarebbero sottoposti nei cosiddetti campi di rieducazione cinesi. 
Secondo il rapporto dell’antropologo tedesco, pubblicato dal Center for Global Policy,  il lavoro forzato coinvolge la stragrande maggioranza della produzione del cotone nello Xinjiang, dove vivono circa 11 milioni di persone di religione islamica, tra cui Uiguri, Kazaki e altri gruppi etnici, tutti soggetti al controllo totalitario della polizia cinese. Dal 2017 centinaia di migliaia di loro sono stati costretti ad andare in campi di rieducazione, che non sarebbero altro che prigioni dove le persone sono ridotte in condizioni di schiavitù. L’organizzazione  economica e paramilitare statale Xinjiang Production and Construction Corps (XPCC) che svolge un ruolo di primo piano nell’economia della regione e nella produzione del cotone, è finita nella black list statunitense.
 Nel 2018 le prefetture di Aksu e Hotan hanno inviato oltre 210.000 lavoratori agricoli a lavorare nello XPCC per la stagione. Questi trasferimenti di massa non sono cessati nemmeno durante la pandemia di Covid-19. Oltre al lavoro nei campi però, le minoranze sono anche costrette a lavorare nelle fabbriche tessili. 
Secondo la Clean Clothes Campaign quasi l'intero settore dell'abbigliamento, come Adidas, H&M, Nike, Zara ecc. ha legami con la produzione derivante dal lavoro forzato nella regione. 
Il profitto che nasce dallo sfruttamento e dalla violazione dei diritti umani non è una novità. Pensiamo all’ inchiesta condotta  dall’Indipendent nel 2016 che svelò lo sfruttamento di bambini siriani impiegati nelle fabbriche turche, fornitrici di grandi aziende internazionali, come la svedese H&M.
Decine di brand continuano a negare di essere di fatto responsabili dello sfruttamento, anche minorile, e della riduzione in schiavitù. 
Oltre a quello tessile, anche il settore cosmetico nasconde sotto lo splendore e la bellezza, miseria e povertà.  Circa 20000  bambini in India sono costretti a mettere in pericolo la propria vita, ogni giorno, per estrarre nelle miniere più profonde la mica, materiale utilizzato dalle aziende cosmetiche per realizzare prodotti venduti in tutto il mondo. Ma non solo, questo materiale viene utilizzato per la produzione di vernici per la carrozzeria delle automobili, e per via della sua resistenza al calore trova impiego anche come isolante per i conduttori elettrici. Nonostante la legge indiana proibisca il lavoro in miniera per i minori di 14 anni, tale attività, pur essendo illegale, continua a sfruttare e a mettere a rischio la vita dei bambini e non solo.
Noi consumatori non riflettiamo mai sulle origini dei prodotti quotidiani offerti dal mercato, la maggior parte delle volte chiudiamo gli occhi dinnanzi alla dura verità, incuranti del benessere che sottraiamo e degli svantaggi che alimentiamo. Ecco cosa significa il profitto a costo della vita: l’interesse egoistico prende il sopravvento e le minoranze deboli e senza voce non diventano altro che minuscoli granelli in un immenso deserto.
Salome Gelashvili e Micaela Capriati, VCe Liceo Bianchi Dottula - Bari

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