“La parola femminicidio esiste nella lingua italiana solo a partire dal 2001. Fino a quell'anno, l'unica parola esistente col significato di uccisione di una donna era uxoricidio, che per estensione indicava l’uccisione del coniuge in generale. Non avevamo una parola che alludesse all'uccisione della donna proprio in quanto donna.”
Queste sono le parole dell’enciclopedia Treccani e, leggendole, sorge spontanea una domanda: perché è nata l’esigenza di creare una parola che indicasse l’omicidio di una donna in quanto tale? La risposta è, purtroppo, altrettanto immediata: perché, anno dopo anno, i casi di uccisioni di donne per genere, cioè uccisioni di donne che hanno la sola colpa di esser nate donne, sono aumentati. Il quotidiano La Stampa ha contato 124 vittime solo nel 2013 in Italia, praticamente una donna uccisa ogni tre giorni. Questo è un problema che non è riscontrabile sono in Italia e nell’Occidente, in generale, ma trova larga diffusione anche e soprattutto in Oriente, con forme più gravi e denigranti: le donne africane mutilate; le donne lapidate in alcuni paesi islamici; le vedove arse vive in alcune città indiane. Bisogna iniziare, innanzitutto, da lì, dai paesi in cui l’uomo si sente ancora onnipotente e, poi, proseguire nei paesi a noi più vicini, in cui forse l’unica soluzione sarebbe adottare provvedimenti drastici, dato che la prevenzione non sempre, come i dati dimostrano, funziona. Si inizia con lo stalking (lettere, sms, chiamate che generano uno stato di ansia, paura e angoscia), una violenza psicologica grave quanto quella fisica e, poi, la tragedia culmina nell’omicidio.
La cosa ancor più drammatica è che ad uccidere queste donne, spesso, non è altri che il marito, il fidanzato, l’ex-fidanzato e, spesso, il delitto viene commesso in casa. Ciò che spinge l’uomo ad agire in maniera tanto cruenta è probabilmente e soprattutto la possessività, l’asfissiante esigenza di un “noi” che non lascia spazio all’espressione della personalità dell’”io”, del singolo. Spesso i femminicidi sono premeditati e questo fa riflettere su una questione importante: l’uomo, piuttosto che accettare che la donna che dice di “amare” stia con qualcun altro, preferisce vederla morta. L’uomo uccide perché è possessivo, perché pensa che la donna sia sua come sua è l’automobile che ha acquistato qualche anno prima o il nuovo televisore che ha posizionato in soggiorno. L’uomo uccide in preda a una passione che di certo non può essere chiamata “amore”, perché Vincenzo Paduano, il ventisettenne che ha bruciato viva la sua ex, Sara, certamente non l’amava quando le ha versato addosso dell’alcool per poi accendersi una sigaretta e vedere la donna bruciare dinanzi ai suoi occhi. Certamente non l’amava, se non le ha permesso di essere libera. Certamente non la amava, se poi è andato tranquillamente a lavoro subito dopo il misfatto. Dopo essere stato lasciato dalla ragazza, l’uomo aveva iniziato a minacciarla via sms, per poi concludere la sua opera con malvagità e cruda violenza: l’ha aspettata sotto casa del nuovo ragazzo, e quando l’ha vista uscire dal portone l’ha anticipata sulla strada che avrebbe percorso per tornare a casa. Dopodiché ha rallentato e si è fatto superare, per poi affiancarla e costringerla a fermarsi. Hanno iniziato a litigare e, come dichiarato da Vincenzo stesso, lui le ha versato addosso una bottiglia di alcool. La ragazza ha iniziato a correre chiedendo aiuto, ma nessuno si è fermato, nessuno è accorso, e l’uomo si è acceso una sigaretta e l’ha osservata prendere fuoco, per poi voltarsi, tornare nella sua auto, e andare tranquillamente a lavoro. Alla stampa ha dichiarato di essere un “mostro”, ma non è forse un mostro anche chi ha visto la ragazza e non si è fermato? Non è forse un mostro anche chi osserva cose di questo genere e tace? Chi sa e non denuncia? Non è forse l’ignavia il mostro più brutto? Allora forse l’enciclopedia Treccani ha ragione, prima non avevamo una parola per designare le uccisioni di donne per genere. Ma ora sì. Ora la parola esiste e, purtroppo, è sempre più frequente leggerla sulle testate giornalistiche o sentirla al telegiornale, alla radio. Probabilmente non esiste ancora oggi una vera parità tra uomo e donna, se la donna viene ancora vista come un oggetto da possedere e privo di autonomia. Probabilmente, se si vuole contrastare questo fenomeno, bisogna iniziare dal proprio piccolo, bisogna combattere l’ignavia, bisogna combattere la possessività, bisogna combattere la crudeltà e bisogna combattere per la libertà, perché in un mondo che non è una fiaba e che non sempre ha un lieto fine, ci deve pur essere un modo per tentare almeno di lottare anche contro i mostri più brutti.
Megi Tabaku, II AL
Liceo Classico, Linguistico e delle Scienze Umane “F. De Sanctis"- Trani