Porre l’uomo dinanzi alla sua finitudine, metterlo a confronto con la sua incapacità di conoscere ogni cosa potrebbe generare un sentimento di smarrimento ed impotenza nei confronti di un mondo alle volte difficile da comprendere.
Diviene quindi impossibile per l’uomo comprendere la realtà in cui esiste ed agisce, se quest’ultima è un “infinito” cui non potrà mai giungere?
L’uomo sceglie di approcciarsi al mondo in modo ogni volta differente, poiché ogni individuo vive attraverso la sua singolarità gli eventi che accadono nell’arco della propria vita.
Ciò renderebbe pertanto possibile definire l’essere umano come entità finita se rapportata all’infinito solo per antitesi, poiché non potrà mai raggiungerlo.
In quest’ottica, relazionando l’uomo alla sua finitudine -tramite la fine materiale della sua esistenza- è possibile definirlo come essere che si muove in una realtà assoluta, pur interagendo con essa in modo soggettivo, ed è pertanto la soggettività che potrebbe permettere all’uomo di rendersi infinito nella sua finitudine.
Ma com’è possibile ciò? In cosa consiste questa soggettività?
Il tempo soggettivo di ogni uomo, c’insegna Bergson, è strettamente correlato alle sue azioni, alle percezioni che divengono poi tracce, generando ricordi destinati a protrarsi nel tempo a seconda della loro intensità come percezioni.
Il tempo umano non scorre in linea retta, si differenzia dal tempo del mondo, quello della scienza, per la sua capacità di modificarsi. Esso è un gomitolo, torna sui suoi passi, si blocca nei nodi dell’abitudine, diviene ciclico per poi sciogliersi e procedere verso il futuro.
Il tempo soggettivo assumerebbe, dunque, un ruolo diverso nella costruzione della nostra interiorità. È la memoria, frutto di ricordi e percezioni, che costituisce la nostra coscienza, determinando chi siamo e permettendoci di comprendere ed assimilare nella nostra esistenza il mondo esterno, pur consapevoli della sua inavvicinabilità.
L’uomo, quindi, nella sua finitudine può anelare all’infinito solo relazionandosi alla fine del suo tempo. Tale fine è la barriera ultima che lo separa dal raggiungere un tempo infinito, ma è solo in essa che ogni “finitudine” può trovare le sue potenzialità d’infinito.
È solo grazie al ricordo che l’uomo può ingannare il limite della sua esistenza. È negli altri che noi sopravviviamo oltre ogni tempo.
Ma se l’uomo pensa l’infinito grazie alla relazione che ha con la sua finitudine, in che modo l’uomo si relaziona al tempo? E, se l’uomo non può conoscere l’infinito se non tramite la concezione della sua fine, esso esiste realmente?
Se neghiamo l’esistenza dell’infinito neghiamo anche quella della sua relazione con il finito e, di conseguenza, il bisogno di un tempo che misuri l’esistenza dell’uomo -non essendo più necessario il confronto con qualcos’altro, il tempo potrebbe perdere il suo valore di legame.
L’uomo, però, colto nella sua singolarità si rapporta al mondo in maniera soggettiva, ma resta uguale a tutti gli altri nella sua fisicità. Il rapporto dell’essere umano con il tempo si mantiene immutato, cambia nelle percezioni dei singoli, ma nella materialità comune degli eventi esso resta inalterato ed inalterabile.
Ragionando in tal modo, tuttavia, l’unico tempo possibile risulta misurabile tramite gli orologi, presentato (ad esempio, dai positivisti) come unico universalmente accettabile in virtù della sua oggettività. L’unico tempo realmente esistente è quello della scienza, la psicologia umana ed il tempo soggettivo non possono rientrare in alcuna analisi poiché sono impossibili da indagare. L’unico tempo, accettato universalmente poiché riconosciuto come reale, è il tempo oggettivo, che si riduce a quello dell’utile, alla funzionalità scientifica del progresso.
Anche Hegel, nelle sue teorie, presenta un tempo statico, quello predeterminato e predeterminante che non lascia scampo all’uomo. Persino coloro che lasciano un segno nella storia, non sono altro che pedine nelle mani del Tempo e della Storia stessa, elementi elevati al pari di divinità, in grado di controllare e decidere per l’uomo, impossibilitato a percorre alcuna via che non sia quella per lui prescelta.
Il finito si scopre non solo impossibilitato a raggiungere l’infinito, ma anche schiavo di quel tempo che credeva di poter controllare, un tempo oggettivo, assolutizzante.
Tuttavia questo Tempo, ci ricorda Bergson, è solo una parte del modo in cui l’uomo si rapporta alla realtà, in quanto esiste anche un tempo soggettivo, che non può essere dimenticato poiché è in esso che l’uomo si autodetermina e comprende se stesso. La memoria -coincidente con lo spirito- si costituisce di percezioni soggettive e determina in tal modo chi siamo.
Le nostre azioni quotidiane si muovono su due piani temporali, quello soggettivo e quello oggettivo, che alle volte coincidono ma spesso divergono, e che determinano costantemente la nostra personalità, in perenne mutamento.
È il nostro passato, il nostro “essere-gettati” nel mondo, come sosteneva Martin Heidegger, che determina il nostro essere nel presente, e sarà il nostro “pro-getto” (essere-già-in) nel presente che determinerà il futuro.
Quella che il filosofo tedesco chiama “storicità autentica”, ossia l’assunzione dell’eredità del passato, la ripresa deliberata e consapevole delle possibilità tramandate, senza però cadere in una restaurazione di ciò che è già stato, è ciò che collega il nostro tempo soggettivo -ricordi- alla costruzione della nostra interiorità ed alla ricerca dell’infinito nella nostra finitudine. La spinta che ci porta al desiderare un infinito cui non possiamo giungere se non cessando di esistere come semplici finiti, enti tra gli enti ripetitivi e in realtà infondati, è la consapevolezza di dover determinare noi stessi partendo da chi eravamo e costruendo su basi soggettive la nostra vita futura.
Ogni dimensione del tempo umano è fondamentale per la creazione dell’individuo, e sono le azioni che compiamo nel passato a determinare il presente, che non è altro se non il futuro del nostro passato.
Ciò può anche permettere una riflessione sull’utilità delle azioni compiute nel tempo, su quanto l’uomo s’impegni nel riempire le proprie giornate di attività, le quali risultano tuttavia infondate e prive di senso, se non ponderate correttamente e basate in modo attivo non solo sul loro fine futuro ma anche sul loro legame con il vissuto.
Anche Nietzsche sostiene l’importanza del tempo soggettivo, del recupero dei ricordi nella loro valorizzazione per il futuro. Egli analizza ciò come una “forza plastica” che permette di “crescere in modo appropriato a partire da sé, di trasformare ed incorporare ciò che è passato ed estraneo, di sanare le ferite, di sostituire le cose perdute, di riprodurre le cose rotte con le loro stesse parti”, come scrive in “Sull’utilità e il danno della storia per la vita”.
Ci rammenta l’importanza del presente, poiché il cadere nell’errore di dar troppo peso al passato -come fanno gli uomini storici- porterebbe l’uomo a chiudersi in se stesso, a dimenticare che vi è un futuro cui giungere, un infinito da comprendere. Bisogna comportarsi da uomini sovrastorici e costruire il futuro a partire dal passato.
Si aprono così le porte di un tempo soggettivo, che pone l’uomo dinanzi ai suoi errori, ai suoi conflitti, portandolo ad accettarli come parte della vita umana, senza la presunzione di poter giungere alla perfezione, ad un infinito che si manifesta come felicità assoluta, irrealizzabile se non nella sua versione di finitudine, nella comprensione e nell’accettazione da parte dell’uomo della sua piccolezza.
L’essere umano, tramite la soggettività del suo tempo nel tempo assoluto del tempo del mondo, può rapportarsi in quanto essere finito all’infinito cui anela. Tramite la sua soggettività, il suo vissuto, le memorie che lo compongono e gli permettono di determinarsi come essere singolo e necessario, pur se calato nell’oggettività della realtà in cui vive e nel cui tempo si relazione agli altri, l’essere umano può proiettarsi nel futuro, suo unico possibile infinito poiché traboccante di tutte le possibilità d’un esistenza eternamente incerta. Egli si determina come singolo tramite i suoi ricordi, e sulla base di essi tenta di costruire se stesso, anche nella consapevolezza dell’eterno mutare di ogni cosa, dei contorni mai definiti del suo divenire.
Clara Taccarelli 5BU Liceo Bianchi Dottula - Bari
Ricordo, memoria, durata. Il tempo come costruzione dell’interiorità umana
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- Inserito da Natalia Diomede
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