Nel III canto della II cantica, Virgilio, che incarna la ragione ed è pilastro portante per Dante, viene colto in difficoltà dal suo allievo. Virgilio non è esperto del luogo in cui si trova, è una guida disorientata e si percepisce il limite dell’efficacia della ragione, vi è quasi un ribaltamento dei ruoli; tant’è vero che è Dante a trovare la soluzione quando, dinanzi all’immensa e ripida montagna del Purgatorio, non sanno quale strada intraprendere per continuare il loro cammino.
Nell’Antipurgatorio, Dante e Virgilio incontrano le anime dei negligenti, coloro che da scomunicati sono stati lenti a pentirsi, perciò sono destinate a muoversi lentamente e tutte insieme, come un gregge, si avvicinano ai due poeti. Una di queste anime, di nobile aspetto, con biondi capelli ed un sopracciglio diviso da un colpo, si fece avanti e chiese a Dante se lo avesse mai visto sulla Terra; vedendolo confuso, mostrò la sua piaga in alto sul petto e si presentò come Manfredi, nipote dell’imperatrice Costanza d’Altavilla, non nominò suo padre, poiché dannato tra gli epicurei. Manfredi di Svevia, l'ultimo sovrano della dinastia sveva del regno di Sicilia, è il figlio illegittimo dell'imperatore Federico II di Svevia e di Bianca Lancia.
Era stato il capo dei ghibellini d’Italia e diversi papi lo avevano scomunicato più volte a causa di gravi peccati. Morì durante la battaglia di Benevento nel 1266, sconfitto dalle truppe di Carlo I d'Angiò. Dopo sette mesi, Bartolomeo Pignatelli, vescovo di Cosenza, per volere di papa Clemente IV, fece disseppellire il cadavere che venne disperso fuori dai confini del regno angioino, nei pressi del fiume Liri. La morte in battaglia e la pressione da parte della Chiesa avevano fatto credere alla dannazione di Manfredi; ma bastò pentirsi dei suoi peccati in punto di morte dinanzi a Dio, per ottenere la salvezza, considerata uno scandalo. Le anime dei negligenti, infatti, sono morte in grazia di Dio ed attendono di scontare la loro pena per giungere in Paradiso.
La domanda sorge spontanea: Com'è possibile che un uomo, nemico della Chiesa, scomunicato, non sia finito all’Inferno? Ogni peccatore potrà utilizzare il pentimento come asso nella manica per finire in un posto meno sofferente degli inferi? Dante esalta l’infinita bontà di Dio, la grande misericordia divina, disposta ad accogliere tra le sue braccia amorevoli e perdonare chiunque si penta del proprio male, anche pochi istanti prima di ritrovarsi faccia a faccia con la Morte.
Il canto III del Purgatorio è centrato sulla ricostruzione di ciò che nella vita reale non è stato ben spiegato, cioè il rimpianto provato da Manfredi, dopo essere stato doppiamente ferito durante la battaglia che segnò la sua morte. Sembra quasi ingiusto che l’artefice di tante cattiverie, commesse sulla Terra e condannato dagli uomini, debba godere della benevolenza divina; sembra quasi impertinente che un'anima vaghi al di fuori degli inferi con i segni della sua condanna sul viso, manifestando il suo peccaminoso passato; sembra quasi impensabile che Manfredi abbia ancora un'ancora su cui aggrapparsi per non sprofondare nell’inferno, sembra quasi una mossa furba il pentimento. Dio considera il male di Manfredi come un peccato perdonabile, perché si è inginocchiato dinanzi all’onnipotenza divina ed è quindi meritevole di un'arma in più, per vincere il duello contro il Male. Manfredi viene messo alla prova, come se fosse sul filo del rasoio, concentrato a mantenere l'equilibrio per giungere alla sua salvezza in Paradiso. Dio tende la mano a colui che poteva essere un dannato.
Dante attribuisce a Manfredi una triplice funzione: esaltazione dei valori cortesi, celebrazione della dinastia e glorificazione della misericordia divina che è superiore alla giustizia della Chiesa, la quale ricorreva alla scomunica per questioni politiche piuttosto che spirituali. Manfredi chiede a Dante di riferire a sua figlia Costanza, ancora viva, che è riuscito a raggiungere la via della salvezza eterna, in modo tale che lei possa pregare per lui, abbreviando i tempi della sua espiazione. Le anime negligenti, infatti, sono costrette a sostare nel purgatorio trenta volte il tempo per cui sono state scomunicate, periodo che può diminuire solo grazie alle preghiere dei vivi.
Martina Gentile - Liceo "G. Bianchi Dottula" Bari - Classe 4^BU Scienze umane
Manfredi: il perdono divino di un negligente
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