È chiaro che le molteplici capacità e la consapevolezza che l’essere umano può acquisire nel corso della sua esistenza non possono debellare la fragilità che lo caratterizza. Ci insegna a sopportare i dolori dell’esistenza: la sua superiorità sta nella consapevolezza della caducità della vita, manifestata attraverso l’esasperazione dell’esperienza della sofferenza, elevata ad arte. Appare qui una struttura triangolare in cui la fragilità umana viene continuamente a confrontarsi e, quindi, scontrarsi.
L’essere umano accede alla propria condizione di vulnerabilità attraverso la mediazione del corpo, del tu e del noi. Innanzitutto, come il filosofo francese Vladimir Jankélévitch ha lucidamente puntualizzato, «l’uomo è fondamentalmente vulnerabile […] la morte può entrare in lui attraverso tutte le giunture del suo edificio corporeo» (V. Jankélévitch, Pensare la morte?, 1995). La fragilità o vulnerabilità è coestensiva alla vita: ogni creatura vivente è esposta al rischio di essere ferita e spezzata nella sua integrità a causa dei più svariati fattori esterni o interni quali violenze e malattie. In termini antropologici, la vulnerabilità del vivere indica come la promessa inscritta nella vita sia sempre esposta al rischio di essere ferita, spezzata, interrotta. È solo grazie al corpo, infatti, che ciascuno si intuisce come un essere che nasce, cresce, invecchia e muore, che agisce e patisce, che sente dolore e piacere. In secondo luogo: l’altro, il “tu”. La presa di coscienza del corpo come “proprio” procede di pari passo alla relazione instaurata con l’altro da sé. L’identità di sé si costituisce solamente nella relazione ad altri. L’Io è sempre in connubio con alcune strette persone: la famiglia, gli amici. Si legge attraverso loro. Ci si apre a loro e si scorge la possibilità di essere feriti. Una ferita che può provenire, infine, anche dal consorzio degli esseri umani. Il suo simile può sempre agire contro di lui, lo può ferire, lo può trattare con violenza fino al punto da esporlo al rischio della morte. Basti citare brevemente Thomas Hobbes, per il quale il bisogno di sicurezza sociale è a fondamento della convivenza tra gli uomini. Questi, al fine di evitare la guerra di tutti contro tutti, accettano reciprocamente di rinunciare a porzioni della propria libertà. Solo accettando la propria imperfezione è possibile creare un rapporto positivo con sé stessi e con gli altri. L'accettazione è quindi un passaggio indispensabile non solo per la felicità personale, ma anche per l'obiettivo più ampio di una società coesa e solida. È questa la tesi con cui ha fatto irruzione nel dibattito sociologico e psicologico americano la ricercatrice Brenè Brown: alla base di ogni problema di realizzazione personale e sociale c'è una domanda di fondo, che tutti si pongono fin dall'infanzia in modo più o meno consapevole: «C’è qualcosa di me e della mia vita che, se scoperta da altre persone, farà sì che non meriterò più il rapporto con loro?» Si tratta di vergogna, percepita come la paura di disconnessione, cioè come la paura di perdere la stima, l'affetto e l'attenzione delle persone che stanno intorno a noi. Per ogni individuo il bisogno di connessione con gli altri è infatti fondamentale. La percezione che ci possa essere qualcosa in sé di sbagliato, che dunque mette a rischio questa connessione, è un fantasma terrorizzante. La vergogna si fonda sulla sensazione di “non valere abbastanza” e provoca una vulnerabilità lancinante. Ma per far sì che si crei un rapporto positivo con sé stessi e con gli altri è necessaria una rivoluzione: imparare ad accettarsi nelle proprie imperfezioni. Le persone che si guardano dentro e si accettano, che hanno la compassione di essere gentili con sé stessi, poi imparano a usare lo stesso metro con gli altri, con il mondo: non è possibile essere compassionevoli se non riusciamo a trattare bene noi stessi. Di qui il passaggio dall'individuale al sociale, di qui i benefici che si estendono a tutta la rete di connessioni. «C’è una sola variabile che separa le persone che hanno un forte senso di amore e di appartenenza e le persone che invece hanno difficoltà a raggiungerlo. Le prime credono di meritarsi amore ed appartenenza. Ciò che ci tiene fuori da ogni positiva connessione è la paura di non meritare questa connessione». Gli individui che riescono a instaurare rapporti autentici e positivi con gli altri sono sempre coloro che hanno avuto prima il coraggio di essere imperfetti. E il modo più efficace per accettare la propria instabilità è scegliere l’autenticità, abbandonando il sé ideale per essere chi si è davvero. Accettare la propria vulnerabilità perché è proprio questa che ci rende migliori. «Lasciatevi osservare, profondamente, in maniera vulnerabile», «Amate con tutto il cuore anche se non esiste alcuna garanzia di ritorno. Siate grati e gioiosi in quei momenti di terrore, quando vi chiedete: “Posso amare così tanto? Posso credere in questo così appassionatamente? Posso essere così agguerrito su questa cosa?”». «Perché», «quando siamo in una condizione nella quale possiamo dire “io sono abbastanza” allora smettiamo di urlare e iniziamo ad ascoltare. Sicché diventiamo più gentili con la gente che ci sta attorno, oltre che con noi stessi».
Marika Mazzone - Liceo “G. Bianchi Dottula” Bari - classe 5^BU Scienze Umane