La realtà è in perpetuo divenire, essa non può essere fissata in schemi e moduli d’ordine totalizzanti, onnicomprensivi. Ogni immagine globale che pretenda di sistemarla organicamente non è che una proiezione soggettiva. Caratteristico della visione pirandelliana è dunque un radicale relativismo conoscitivo: non si dà una verità oggettiva fissata a priori, una volta per tutte. Ognuno ha la sua verità, che nasce dal suo modo soggettivo di vedere le cose. Ne deriva un’inevitabile incomunicabilità fra gli uomini: essi non possono intendersi, perché ciascuno fa riferimento alla realtà com’è per lui; proietta nelle parole che pronuncia il suo mondo soggettivo che gli altri non possono comprendere. Tutto ciò collega Pirandello a quel clima culturale europeo del primo Novecento in cui si consuma la crisi delle certezze positivistiche, della fiducia in una conoscenza oggettiva della realtà mediante gli strumenti della razionalità scientifica. Afferma che la realtà non è più una totalità organica, ma si sfalda in una pluralità di frammenti che non hanno un senso complessivo. Il particolare non vibra della vita universale, ma è semplicemente una particella isolata, perché un Tutto non esiste. Lungi dal cercare l’identificazione con l’essenza, non resta che prendere atto dell’incoerenza e della mancanza di senso del reale.
L’uomo è irrimediabilmente solo e lotta contro un muro di pregiudizi e pastoie sociali che opprimono e non lasciano fluire liberamente la vita che è un carcere senza porte né finestre e per quanto lotti per uscirne, non ci riuscirà mai. Invano egli cercherà un dialogo con gli altri, ma questo gli sarà negato. L’incomunicabilità è data dalla frammentazione delle realtà che sono possedute da persone diverse, l’incontro perciò risulta impossibile. La vita dell’uomo è sclerotizzata in una maschera, al di fuori della quale non è, non può vivere. Se ognuno di noi la togliesse sarebbe un elemento inconsistente, senza più vita sociale. L’essere infatti è capace di indossare tutte le falsità che vuole, si deve concentrare però sulla sua interiorità, che non potrà mai essere nascosta e rivelerà inevitabilmente l’ombra, il suo riflesso. Un tramite che ci ha permesso di avvicinarci ai vari personaggi e di comprendere a fondo il loro essere, come reso noto nel capitolo XV del “Fu Mattia Pascal”. Esistente ma priva di consistenza, davanti alla realtà non può portare a termine quanto si prefissa, come se andasse avanti la sua vita in modo astratto. Un individuo è tale quando il suo corpo e la sua anima vanno di pari passo, pur procedendo distintamente; quando poi però quell’ombra sembra non somigliare al corpo o troppo distante, non in comunicazione, ecco che l’uomo si sente perso e solo in questa realtà. Un’ombra acerba che ancora non conosce tutto ciò che ha davanti ma avrà tutto il tempo per maturare. Possiamo passare tutta la vita a sfuggire da noi stessi e a stare nel buio, senza mai però, per quante volte tenteremo di svoltare pagina, riuscire a liberarci della nostra ombra che ci ricorderà per sempre quale veramente è la nostra essenza, essendo essa presente, passato e futuro. La libertà individuale è un'utopia e la vita quotidiana dell'essere umano è scandita come una performance teatrale dove ognuno di noi non può fare a meno di interpretare una parte, complementare a quella di tutti gli altri individui con cui interagiamo.
La modernità ha introdotto un modo per mettere a tacere i dubbi e l'ansia dell'individuo moderno. Tale potere è stato interpretato dal mercato globale che ha imposto le maschere suggerite dall'economia di mercato. Da una parte siamo stati colpiti da una sorta di epidemia di narcisismo globale, ossessionati come siamo al nostro aspetto, e dal voler apparire a tutti i costi; dall’altra, siamo sempre più insicuri, fragili ed incapaci di accettare noi stessi. Le innumerevoli identità che l’individuo assume agli occhi esterni e che contrastano con le percezioni interiori ci introducono a un tema strettamente connesso a quello della scissione dell’Io: l’incapacità di parlare. Gli individui che non accettano questo ruolo, questo personaggio sono coloro che non possono inserirsi nella società, dalla quale non vengono riconosciuti, sono quindi privi di un’identità definita.
Nel romanzo, Mattia, stanco della condizione di infelicità in cui vive, coglie l’opportunità presentatagli dal caso per cambiare volto: una serie di casualità lo portano a poter fingere la sua morte, quindi decide di cambiare identità diventando Adriano Meis, uomo d’affari benevolo e benestante. Trasferitosi a Roma, una serie di avvenimenti porterà Adriano alla consapevolezza che la nuova identità non gli permette di creare relazioni con altre persone, non gli conferisce la possibilità di avvalersi della legge, lo priva della libertà quindi, egli ne diventa prigioniero. Con la prosecuzione del romanzo si arriva, infine, alla totale privazione del riconoscimento del protagonista. Non gli resta che estraniarsi e da ogni meccanismo sociale diventando un osservatore della vita, diventando “fu” Mattia Pascal. Interessandosi allo specchio, Pirandello nel capitolo V si rivela erede di una lunghissima tradizione culturale, la cui origine risale al mito di Narciso: per secoli l’umanità si è interrogata sulle qualità di questo oggetto, che “duplica” il reale ribaltandone l’immagine, chiedendosi se è uno strumento di verità o di illusione, e se può aiutare l’uomo a progredire nella scienza o se lo condanna a precipitare nella follia. Questa prima volta segna l’inizio della maturazione psicologica del protagonista, della presa di coscienza della sua identità e cerca di vedere meglio ciò che è stato capace di intravedere da solo. La dicotomia tra persona e personaggio, tanto palese nell'opera pirandelliana, non è altro che una forza inconscia che spinge l'uomo ad auto ingannarsi, a fingere a sé stesso la soddisfazione di bisogni quali il piacere, la giovinezza, l'amore in cui l'identità è solo finzione e apparenza. Ed è proprio questa consapevolezza che genera costanti contrasti tra il proprio Sé e la società, ma soprattutto tra con le diverse tipologie di elementi che costituiscono il Sé. Potremmo dire, in termini psicoanalitici, che tra le maschere che indossiamo e il nostro volto, si instaura un rapporto ambivalente di amore e odio, di libertà e dipendenza.
Ne “La coscienza di Zeno”, Svevo rovescia completamente il binomio salute-malattia, con un processo assimilabile allo “straniamento” verghiano per la tragicità e al “sentimento del contrario” pirandelliano per l’ironia che “alleggerisce” il senso del tragico. La vita “normale” della società borghese è fondata su meccanismi distorti e alienanti che rifiutano le leggi di natura, costringe l’uomo a piegarsi alle convenzioni, estirpando i suoi desideri più naturali e reprimendo i suoi impulsi vitali. Il borghese “sano” si è integrato nella vita distorta imposta dalla società e vive la quotidianità grigia e banale senza riflettere, perciò senza avvertire alcuno scontento. Il malato invece non è un essere inferiore e difettoso, è solo consapevole della malattia insita in se stesso e nella società, non se ne rassegna e resiste all’ipocrisia del mondo circostante, opponendovi la sua nevrosi. La concezione che Verga ha della vita è dolorosa e tragica perché egli vede tutti gli uomini sottoposti a un destino impietoso e crudele, che li condanna, non solo alla infelicità e al dolore, ma anche all'immobilismo nell'ambiente familiare, sociale ed economico in cui sono venuti a trovarsi nascendo. Attraverso tenacia, lavoro e impegno ha effettuato la sua ascesa sociale ed economica.
Mastro Don Gesualdo è un vinto che ha abbondonato il proprio “scoglio” separandosi dall’umile ambiente da cui deriva non riesce a farsi accettare dalla classe aristocratica in cui ambisce inserirsi. La tecnica principale della narrazione verista verghiana è il discorso indiretto libero che è un particolare modo di riferire parole e pensieri all'interno della narrazione, si riporta un enunciato in terza persona senza che ci siano verbi a introdurlo (canone dell’impersonalità) e la comparsa della voce corale che ha il compito di far diventare il popolo narratore. La differenza tra le due concezioni di “inetto” sta nel modo in cui i protagonisti affrontano questa situazione: l’inetto pirandelliano, considerando anche Vitangelo Moscarda in “Uno, nessuno e centomila”, tenta in tutti i modi di rovesciare la realtà, in questo caso cercando di ridurre le sue molteplici identità ad un’unica forma. Al contrario, l’inetto sveviano, essendo completamente inadatto alla vita, non è in grado neppure di reagire e per questo accetta passivamente la sua condizione. Probabilmente oggi più che mai l’uomo si ritrova a condividere questo stato d’animo e il suo essere contemporaneamente “uno” perché è quello che si illude di essere ogniqualvolta compie un atto; “nessuno” per via della sua irrefrenabile mutevolezza, che gli impedisce di sedimentare in un complesso di aspettative che la società avanza; “centomila” dal momento che egli assumerà tante parvenze di individui diversi quante saranno quelle che gli altri gli attribuiranno. È meglio vivere un giorno rimanendo se stessi che cento giorni vivendo la vita di un altro. Senza rendercene conto ci stiamo auto-privando di quel “fanciullino Pascoliano” (anticonformista) che ci consentirebbe di guardare il mondo con meraviglia e stupore, concentrandoci sulle piccole cose, briciole di bellezza che sono sparse lì fuori, per chiunque.
Marika Mazzone - Liceo "G. Bianchi Dottula" Bari - classe 5BU Scienze umane