Voglio ricordarlo nel mese che gli ha dato i natali: Febbraio. Quel lontano 18 febbraio del 1940, in cui nacque l’uomo che avrebbe rivoluzionato per sempre il panorama della musica italiana. Da sempre, Fabrizio de André si distinse per il suo animo anticonformista e libero. Libero dalle imposizioni del suo tempo, dalla ragnatela del consumismo in cui l’Italia degli anni 70 era intrappolata, ancora, libero dal perbenismo sociale travasato nell’arte della sua epoca. Ateo, anarchico, pacifista: Fabrizio era un vinto tra i vinti, motivo per il quale riuscì e riesce ancora oggi, ad avvicinare a sé un pubblico eterogeneo, unito da necessità mai avverate dai Poteri sordi: giustizia sociale e uguaglianza . E’ triste, constatare che lo scorrere del tempo non abbia cambiato il nostro fragile Paese. Forse, è addirittura più corrotto, indifferente alla sofferenza altrui, inerte alle grida del popolo che invano impreca: libertà e aiuto. Come direbbe il Sommo Poeta nella cantica del Purgatorio: ”Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta, non donna di province, ma bordello!”. Fabrizio impavido e lungimirante cantautore si oppose strenuamente ad una realtà alienante e opprimente. Il mio omaggio ad uno dei “poeti” più invischiati nella società italiana, più di molti uomini di governo; intreccerà temi di carattere sociale e filosofico a tre canzoni dell'indimenticabile cantore degli sconfitti: “Il cantico dei drogati” , “Verranno a chiederti del nostro amore”, e “Il testamento di Tito”. Iniziamo la nostra Odissea facendo tappa alla prima isola del nostro viaggio: “Il cantico dei drogati”, una canzone che ha come manifesto una fragilità “troppo umana” , che vuol essere celata e soppressa perché considerata fonte di debolezza e inettitudine. Una frase emblematica “Come potrò dire a mia madre che ho paura?” cristallizza in sé diverse tematiche di sconcertante attualità. Ancora oggi, l’uomo medio è disposto ad asserragliarsi dietro le mura del: “maschio-alfa” pur di non mostrare la sua sofferenza, ingoiando una caterva di nodi in gola, che rimangono come schegge latenti nel suo corpo, in attesa di esplodere, in attesa di sferrargli il colpo letale. La stereotipizzazione cucitagli addosso è frutto di una tradizione di genere che da sempre obbliga gli uomini a doversi mostrare indifferenti al dolore, ad adottare fermezza in ogni loro decisione, ad essere infrangibili dinanzi al vento colmo di imprevedibilità della vita. Un detto militare dice così: “Un ufficiale non piange mai”, chissà quanti soldati di ritorno dalla guerra, avrebbero voluto piangere l’orrore delle trincee, chissà quanti di loro rimpiangono di aver premuto il grilletto contro un uomo come loro ma di nazionalità diversa, e ancora, chissà quanti altri avrebbero voluto essere seguiti da uno psicologo dopo aver subito un trauma così aberrante ed insanabile. Invece, hanno dovuto sfilare davanti ad occhi ingordi di prime pagine, di ministri che inneggiano alla pace continuando a mandare al fronte i loro figli, dinanzi alle mogli ed i figli dei fratelli perduti in campo. “Chi diede la vita, ebbe in cambio una croce”, una medaglia che pretende di dare un senso, magari di santificare, la violenza. Questa poesia contiene un’altra citazione di folgorante verità:” E soprattutto chi e perché mi ha messo al mondo dove vivo la mia morte con un anticipo tremendo? L’inquietudine che attanaglia ogni giovane davanti all’insensatezza dell’esistenza, quella rabbia esistenziale che monta in seno quando non si riesce a dare uno scopo a quella casualità così fugace, che è la vita. La nuova generazione, si sente ripetere continuamente quanto sia passiva nel marasma politico-sociale che attraversa il nostro tempo. Eppure, tanti appartenenti alle vecchie generazioni folte di esperienza ma povere di oggettività e comprensione, non leggono il presente attentamente. Il futuro è un’incognita vertiginosa e distante per i fanciulli, che consapevoli della labilità della loro era, sfogano il loro malessere in un “imperativo presente” composto da vizi, eccessi e contraddizioni. La società in cui abitiamo oggi, li fa sentire falliti ed inutili. Recentemente una giovane studentessa milanese di diciannove anni, frequentante l’università IULM si è tolta la vita, perché:” Ho fallito nella vita e negli studi”.Il filosofo tedesco Feuerbach, in uno dei suoi saggi più noti: “Filosofia dell’Avvenire”, teorizza la società ICH-DU (IO e TE), in cui il prossimo va curato con la stessa devozione che si donerebbe a Dio. La scoperta che Dio non esiste più, istiga in noi esseri umani, la necessità di cercare il senso della nostra vita, al di fuori di noi, negli occhi dell’altro. Come sostiene il filosofo francese Emmanuel Lévinas nel suo saggio: “Totalità ed infinito”, ogni giorno incontro Dio nello sguardo dell’altro, che mi riguarda, di cui ho responsabilità. Ma i giovani d’oggi, come fanno a costruire una società filantropica se sono costretti ed oppressi a trasformarsi in automi arrivisti ed individualisti? Se vengono ridotti a matricole che devono fatturare un risultato? Arriviamo alla seconda tappa del nostro percorso: “Verranno a chiederti del nostro amore”, un testamento che condensa la tragicità di un amore addomesticato dalla vergogna, quella società della vergogna che nell’Iliade aveva costretto Ettore a combattere contro Achille pur sapendo già l’esito nefasto a cui sarebbe approdato quello scontro, allo stesso modo le costrizioni sociali sono come briglie che frenano il nostro io, adeguandolo alle richieste imposte da chi ci circonda. “Continuerai a farti scegliere, o finalmente sceglierai”, la semplicità dell'accondiscendenza risiede nella privazione di dinamicità del pensiero. In quanto per scegliere c’è bisogno di un pensiero vigile, sveglio, in movimento che trova difficile dipanare il filo, eppure la complicatezza lo rende emancipato, diversamente da chi decide di accomodarsi nella mera sopravvivenza che garantisce il sonno della ragione. E poi come non menzionare un’altra frase di questo affresco sociale:” I tuo occhi come vuoti a rendere per chi ti ha dato lavoro, i tuoi occhi assunti da tre anni, i tuoi occhi per loro”, l’album in cui è contenuta questa canzone si chiama Storie di un impiegato, e De André come pochi, è riuscito ad infilarsi nelle feritoie di chi viene costretto a vendere la propria anima al Potere. Questo verso, mi evoca in mente diverse immagini: i corrieri Amazon e food delivery, gli impiegati dell’Ilva e più in generale tutti coloro che vengono sfruttati come oggetti atti a soddisfare i nostri piaceri. Spesso, la gente si lamenta del corriere che ha consegnato la pizza fredda, non curandosi del fatto che questi poveri servi, devono sfrecciare da un capo all’altro della città, nel minor tempo possibile, sotto la pioggia d’inverno o l’afa asfissiante che procura un sole d’agosto. Tutto questo, per una cifra misera e vergognosa. In un’era "democratica" e soprattutto interconnessa non si guarda all’altro come un fratello, ma come un mezzo per raggiungere il fine.
In ultima istanza, come non menzionare il lascito di Fabrizio ne “Il testamento di Tito”, in cui dice: “Nella pietà che non cede al rancore, madre ho imparato l’Amore”. Quanti giovani e adulti lasciati nella povertà dallo Stato indifferente alle loro urla volge il suo sguardo al crimine? Purtroppo moltissimi. La maggior parte di questi finisce in carcere, che da organo di riabilitazione alla vita civile si è trasformato in un alveare colluso e criminogeno. La giustizia, il gradino più alto che regola la nostra quotidianità, è tristemente inefficiente di fronte all’esigenza rieducativa e riparativa dell'istituzione carceraria. Gli organi preposti alla regolamentazione della vita civile devono essere in grado di avere la lucidità necessaria per non cedere all’istinto primordiale del rancore, ma di affidarsi con spirito ardente alla speranza che il Perdono, fatto di seconde opportunità- di cui ognuno di noi ha diritto- può piantare semi di solidarietà e di gioia per la lotta con la vita. Antonio Gramsci diceva: “Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani”, la vita è conflittualità, ed è proprio grazie a questa lotta che si riesce ad essere soggetti pensanti, liberi dal giogo del padrone. Insegnare che essere intellettualmente indipendenti è indispensabile per non essere assoggettati da una ristretta cerchia di Baroni, è il testamento che ci lascia Fabrizio de André. Ci insegna a non aver paura di essere addirittura oltraggiosi nel racconto della verità, perché troppe volte la stessa realtà è più assurda e crudele di qualsiasi finzione verosimile. Dunque, in un tempo di aridità del pensiero, scriviamo a caratteri cubitali il nostro no al sonno della ragione che genera mostri . Ricordando che:“ dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior”.
Maria Lisa Fiore - classe 5^AL Liceo Linguistico "Bianchi Dottula" Bari
“Verranno a chiederti del nostro amore”: un omaggio a Fabrizio De André
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- Inserito da Lia De Marco
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