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Giovanni Drogo è un militare catapultato improvvisamente nella Fortezza Bastiani, di cui diventa prigioniero. Giovanni ha la possibilità di scappare, di fuggire, ma rimane, attende… Attende la sua gloria eterna. Buzzati, non a caso, è stato definito un De Chirico romanziere e Giovanni uno dei suoi manichini.
La metafisica buzzatiana è dominata da un tempo imperituro, che scorre ma non invecchia. Un tempo che si ciba dell’attesa dell’uomo, della sua caparbietà e della sua ostinazione. Un tempo narcotico che ti ipnotizza e ti persuade. E, in questa atemporalità senza un senso, Giovanni dedica ogni istante vitale all’attesa del proprio Momento. Come accade nella società di oggi, Giovanni ha grandi sogni, ma non si mobilita per realizzarli, li guarda da lontano come fa con i Tartari e attende che siano loro a raggiungerlo. Giovanni è fluido, direbbe Bauman.
L’uomo moderno è precario, flessibile, incapace di progettare a lungo termine. Il simbolo dell’uomo moderno, nell’immaginario comune, è il vagabondo, l’uomo senza radici. <<Il vagabondo non sa quanto a lungo rimarrà dove è ora, e spesso non sarà lui a decidere quando dovrà andarsene>>. Il protagonista del romanzo di Buzzati è, in realtà, vittima dello stesso destino: non sa quanto rimarrà alla Fortezza. Ma quando meno se lo aspetta, la Morte lo accoglie teneramente tra le sue braccia, non permettendogli di realizzare il progetto eroico (la guerra contro i Tartari), che aveva sempre desiderato.
Il sociologo polacco sottolinea il dramma esistenziale dell’uomo di oggi e, a suo avviso, ciò è la causa della volontà di vivere in una tribù senza, però, mettervici radici. Anche Drogo vive la tensione tra la certezza pratica rappresentata dalla Fortezza Bastiani, dove ha speso tutto il suo tempo, e l’assenza di garanzie, rappresentata dalla società di cui, però, ha paura.
Buzzati, l’anello mancante tra surrealismo e metafisica, è stato un autore dalla straordinaria modernità.
Purtroppo è stato spesso sottovalutato, tuttavia la sua poetica ha dell’incredibile. Ha rappresentato con l’allegoria della Fortezza e il miraggio dei Tartari la precarietà dell’uomo moderno. E, allora, tra qualche generazione, come sarà conosciuta l’Età moderna? Una specie di neodandynismo? La grande decadenza? E, invece, in che chiave sarà letto Il deserto dei Tartari? Ancora, erroneamente, come un romanzo di influenza kafkiana o come una puntuale preveggenza della società postmoderna? Emanuele Servidio VAU, Liceo Bianchi Dottula - Bari

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