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Le prime rivelazioni di storie di bambini-selvaggi risalgono al 1700 e si tratta di racconti che presentano i tratti sfumati di mito e leggenda. I bambini-selvaggi sono neonati, che, abbandonati in luoghi, come la giungla, sono riusciti a sopravvivere, cibandosi di foglie, erbe, bacche, pesci, insetti, senza alcun contatto con la specie umana. Bambini dunque allevati da animali. Non c’è una razza specifica che “adotta” questi bambini: si narra di lupi, gorilla, scimpanzé, capre. I miti più antichi, soprattutto quelli afferenti alla fondazione di città, raccontano di infanti abbandonati alla nascita e cresciuti da un animale. Il caso più celebre è quello di Romolo e Remo, i quali, posti su una cesta sul Tevere, furono salvati da una lupa.
Gli studi sui bambini-selvaggi hanno portato all’elaborazione della teoria dell’imprinting di Konrad Lorenz. L’apprendimento funziona come un meccanismo di imprinting, che conferisce al soggetto un carattere permanente; questo sistema è stato ben verificato da studi su pulcini e anatroccoli. Secondo Lorenz, il neonato si attiva a ”seguire” la figura che compare nel suo campo visivo nei primi istanti di vita. I problemi cognitivi e di apprendimento del linguaggio dei bambini-selvaggi, però, dipendono dal fatto che non sono stati esposti a sufficienza all’ambiente umano, durante fasi importanti dello sviluppo, e non sono imputabili a tare presenti già alla nascita.
I casi registrati nella letteratura sono settantasette. Il primo risale al 1344, quando, testimoniano le cronache del tempo, fu trovato un bambino selvaggio di circa dieci anni. Ma il caso che fece più scalpore è quello del 1798: un bambino di dodici anni, Victor, fu ritrovato nei boschi francesi dell’Aveyron; egli mostrava gli stessi istinti e gli stessi comportamenti di un animale. Victor fu portato in un istituto per sordomuti, a Parigi, e, in cinque anni, recuperò comportamenti umani e imparò alcune forme basilari del linguaggio, sebbene non riuscì mai a parlare veramente. «E quanto più un bambino è stato a contatto con gli animali, tanto più è difficile il suo recupero» - spiega Anna Ludovico, autrice di un libro dedicato all’argomento, “Anima e corpo. I ragazzi selvaggi alle origini della conoscenza”. Sulla storia di questi bambini, fu girato anche un film nel 1970, diretto e interpretato da François Truffaut, “Il ragazzo selvaggio”.
 “Lo studio sui bambini selvaggi rivela un nesso importante della psicologia cognitiva: senza il linguaggio verbale, che viene garantito dall’ambiente sociale in cui si vive, viene meno la più importante caratteristica della nostra specie, vale a dire la possibilità di pensare in modo astratto». Questi casi ci aiutano a comprendere che, in un certo senso, esseri umani si diventa, non si nasce. Senza la trasmissione culturale di migliaia di generazioni che ci hanno preceduto, noi torneremmo probabilmente a vivere come scimmie.
Daniela Deceglie e Alessia Lopez, 4Au, Liceo Bianchi Dottula - Bari

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