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Il termine “femminicidio”  è un conio recente.  E’ nato nel 2008, quando Barbara Spinelli, consulente dell’ONU in materia di violenza sulle donne, pubblicò un libro intitolato "Femminicidio, dalla denuncia sociale al riconoscimento giuridico internazionale". Questa parola si è  sovrapposta al termine di origine latina “uxoricidio”, che indica l’uccisione di una moglie da parte del coniuge. Il lemma “femminicidio” si usa per indicare molti crimini (maltrattamenti fisici e psicologici, sessuali), che mettono in pericolo la libertà, la dignità e l’integrità psico-fisica di una donna. Quindi contempla un odio feroce verso l’universo femminile “proprio perché tale”.
Secondo i dati ISTAT, nel 2015, il 35% delle donne di tutto il mondo ha subito violenza. In Italia, invece, 6.000.788 donne tra i 25 e i 27 anni affermano di aver subito nel corso della propria vita almeno una violenza fisica o sessuale.
Tra le forme di femminicidio più note si segnalano la violenza domestica e il baby femminicidio.
La violenza domestica praticata dal partner della vittima ha l’obiettivo di affermare  il potere  maschile maltrattando, umiliando, minacciando e sminuendo la donna. L’ultima tappa di questa escalation è l’omicidio. Pertanto, la violenza domestica non si riduce all’atto fisico, ma si attua attraverso forme di predominio psicologico, sessuale e, perfino, economico.
Questo tipo di fenomeno, secondo gli studiosi, si articola in tre fasi.
La prima è caratterizzata dalla violenza verbale. Il distacco del partner è avvertito dalla donna come un segno di abbandono che la spinge ad evitare di opporsi al proprio compagno, assecondandolo in ogni cosa. La seconda prevede i maltrattamenti fisici a cui seguono pentimento e richiesta di perdono. Con l’avanzare del tempo, la donna diventa sempre più dipendente da questo legame, seppur malato, mentre l’uomo acquista maggiore potere.
Un fenomeno ancora più scioccante è il “baby femminicidio”. Alcune ricerche mostrano come sia in aumento il numero di ragazze uccise dai “fidanzati”, già a partire dall’età di 11 anni. Mentre una donna è in grado di cogliere la pericolosità del proprio partner, pur scegliendo di rimanere con lui anche in seguito a alle esperienze negative, l’adolescente segue il cuore e non la mente, spesso spinta anche da un desiderio di rivalsa sui genitori. I giovani assassini sono ragazzi che non sanno accettare le sconfitte, le separazioni o le perdite, e trasformano il dolore in rabbia, in atti impulsivi e violenti. Quando si trovano di fronte ad una scelta o ad un rifiuto, gli adolescenti affrontano la situazione con la minaccia, l’aggressione, la violenza e, in ultima istanza, l’omicidio. Dunque il presentimento di essere abbandonati suscita un senso di disperazione, di fallimento e di solitudine, che porta più facilmente ad attribuire la colpa agli altri piuttosto che a se stessi.
Occorre incidere sul comportamento maschile e insegnare alle donne la prevenzione.
Negli ultimi anni, sono nate varie associazioni che si occupano di combattere le violenze di genere. E’ importante valutare i rischi nell’ambito clinico e peritale con giuste diagnosi.
In ambito clinico, bisogna soprattutto aiutare le donne ad essere  consapevoli delle pericolosità di certe relazioni. In ambito peritale, la valutazione dei rischi può essere esaminata in diversi contesti: prima del processo; durante le indagini, durante un procedimento giudiziario, specie nell’attribuzione dei domiciliari, e purtroppo anche dopo la condanna.

Erica Monticelli e Roberta Sassaroli, 4Au Liceo Bianchi Dottula - Bari

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