“Dio è morto”, proclama Nietzsche nell’aforisma 125 della “Gaia scienza”, l’ha ucciso l’uomo folle. Molti pensatori si occuperanno del “problema dio”, altri utilizzeranno nelle loro teorie questa figura che, seppur controversa, rappresenta spesso un arrivo sicuro (ricordiamo Cartesio, Hegel).
Per Marx, Dio era “l'oppio dei popoli”, per Freud è un'illusione umana.
Ma cosa, realmente, significa Dio nella moderna complessità di oggi? Cosa la sua figura, reale o presunta, significa per l'uomo? E, parafrasando Foucault, negando l'esistenza di Dio si nega anche l'esistenza d’un io etico, capace di compiere azioni moralmente corrette e generosamente disinteressate?
Emanuele Lèvinas, considerando Dio il “volto dell'altro”, di coloro che incrociano il nostro cammino e si relazionano con noi, ci offre un interessante spunto di riflessione.
Dio è insito nella nostra quotidianità, non come figura lontana o metodo per alleviare i nostri dolori, bensì come necessità di contatto, confronto sincero e sensibile con un altro diverso dalla nostra interiorità.
In Lèvinas scopriamo un Dio che "ha bisogno di me", che vive come me le sue piccole battaglie di ogni giorno, che mi aiuta e che aiuto.
Ed è con questa delicatezza, forse eccessiva, che il filosofo ci invita alla gentilezza, al rispetto, alla scoperta d’una divinità che si riflette nella nostra relazione con il mondo.
Eppure, questa visione della realtà può apparire idilliaca, forse la migliore, ma troppo perfetta per realizzarsi appieno nella quotidianità d’un mondo che insegue i propri interessi e non si preoccupa dell'altro.
È con Foucault che l'uomo viene messo in discussione e perde se stesso. Egli non si preoccupa dell'esistenza o meno di dio, piuttosto teme che sia l'uomo, inteso come essere pensante, come realtà etica, a rischiare di scomparire.
L'uomo si smarrisce e cerca invano una soluzione ai suoi problemi. Ma la divinità resta lontana dal singolo e dal quotidiano, diviene l'illusione freudiana creata inconsciamente per sfuggire al presente e rifugiarsi in un futuro che, tuttavia, non giunge mai.
Anche per Feuerbach la divinità è illusione, proiezione dei desideri umani e del tentativo di mascherarne il fallimento.
Un’umanità così intesa non trova scappatoie, è condannata a decadere sempre più, perdendo se stessa nell’illusione d’una divinità sorda ai suoi appelli, ormai irraggiungibile.
Ma è realmente così? Non vi è più speranza per l'uomo? Oppure un'alternativa esiste?
E' Bonhoeffer ad indicarci il cammino, affermando che il mondo, in seguito ad Auschwitz, è ormai divenuto “maggiorenne”. L'uomo deve imparare a vivervi come se Dio non ci fosse, poiché egli non ha più la capacità di aiutarlo e di fare da “tappabuchi”.
L'uomo non può più aggrapparsi alla divinità, deve mutare in oltre-uomo nietzschiano, in grado di porsi oltre le certezze e di far sì che il destino sia suo, libero da ogni vincolo ultraterreno, reale o apparente, pur nella complessità e difficoltà che dover scegliere autonomamente comporta.
Dio deve perciò esistere non in un luogo lontano, bensì nella realtà di ogni giorno, nella nostra relazione con gli altri e nell'uso che facciamo del tempo che abbiamo in questa vita.
Clara Taccarelli VBu Liceo Bianchi Dottula - Bari