Bari, 2 dicembre 1943 - È una serata tranquilla, stasera. Fa un po’ freddo, ma non ho voglia di stare in casa. Il cielo oggi mi pare triste, mi viene quasi da chiedergli: “Cosa c’è che non va?”. Mi chiamo Elena, ho dieci anni, e vivo a Bari. Sono una bambina tranquilla, e mi piace tanto ridere. Non ho giocattoli, non ho bei vestiti, non posso andare a scuola, la mia mamma ha troppa paura. Però sono felice, ho una mamma e un papà che mi vogliono tanto bene, sono così fortunata! Abito vicino al mare, ogni volta che mi sento un po’ triste, guardo fuori dalla finestra e mi torna subito il buon umore. “C’è la guerra, dice sempre il mio papà; non è sicuro uscire”. Ma perché i grandi non si vogliono bene? Perché, per colpa loro, la gente muore? Mentre penso queste cose, il cielo si fa nero, e uno soffio d’aria fredda, anzi gelida, entra dalla finestra, facendomi venire i brividi. Sul davanzale, si posa una striscia stretta e lunga di non so quale materiale, che sembra fatta di carta stagnola. Ce ne sono anche qui, fuori dalla finestra, per terra. Non capisco, sono confusa, e ho tanto freddo; sento un rumore in lontananza, mi gira la testa, vedo tutto nero. Guardo l’orologio, segna le 19.30. Sento la voce della mia mamma. Sta gridando e corre verso di me: “Scappa Elena, scappa e non fermarti”. Ma come? Corri? E dove scappo? Non riesco più a pensare, sento solo un boato, forte, fortissimo. E poi un altro, e un altro ancora. La gente per la strada urla. Mio padre mi prende in braccio e continua a correre, coprendomi la testa con le mani. Non vedo più la mamma, vedo solo fiamme! E le navi che scompaiono nel mare, nel mare che è nero e brutto. “Che cosa succede, papà? Dove sta la mamma?”: chiedo al mio papà che non risponde, mi mette giù a sedere in un angolo e se ne va. Adesso sono sola e piango. Non so cosa sia, ma sento ancora un rumore molto forte. Da lontano, vedo papà che sta tornando indietro, ha la mamma accanto a sé. Ha le gambe tutte rosse di sangue. Chiudo gli occhi, ma li riapro subito. In lontananza, continuo a vedere il fumo, i palazzi che crollano intorno a noi, vedo anche casa nostra. La mamma mi abbraccia, è caldissima, sembra che bruci, e piange. Sento le voci delle altre persone: gridano, si disperano, si lamentano. Forse stiamo morendo tutti, ma non so che cosa fare adesso. Ho smesso di piangere, non sento più niente, sono stanca, sfinita... Riapro gli occhi. Dove sono? Non lo so. Dinanzi a me un muro bianco. Credo di essere in ospedale. Non ho più voce, non riesco a muovermi, cerco con lo sguardo la mia mamma e e il mio papà, ma non ci sono. Spero che siano con me tra poco, ma sento – anzi temo - che non ci saranno più; ora, so che non ci saranno più. Possibile? Non ci posso pensare. Verranno a prendermi! Non mi lasceranno qui da sola! Non lo farebbero mai! Ma, sono ferma qui in un letto di ospedale a sentire le voci intorno a me. È il 2 dicembre, dicono. Centinaia di morti, dicono. Non c’è più posto negli ospedali, dicono. Mi sono appena svegliata, e sono già distrutta. Ho nella testa la voce di mia madre. Ho freddo e vorrei gridare, ma la voce non c’è. Vorrei alzarmi, correre, ma le gambe non si muovono. Mi accovaccio. Ho voglia di dormire. Chissà se sarò ancora qui al mio risveglio… Mi chiamo Elena, ho dieci anni e da oggi non ci sono più, perché il fuoco della cattiveria umana e della sete di potere bruciava sul mare. Non ci sono più, perché era troppo chiedere di fermare quel fragore assordante. “Chiudi gli occhi, bambina, e perdona tutta questa crudeltà. Il cielo, per te, non sarà mai troppo grigio”. Quel 2 dicembre del 1943, centinaia di civili morirono a causa dei crolli dovuti ai bombardamenti sul porto di Bari, ad opera di 105 bombardieri della Luftwaffe tedesca. Centinaia di morti evitabili, centinaia di vittime innocenti della brama umana di potere. Finché il suo ricordo rimarrà unico nella nostra mente e nel nostro cuore, il cielo non sarà mai troppo grigio, per nessuno.
Alessandra Michea - Liceo "G. Bianchi Dottula" Bari - classe 4^BU Scienze umane